venerdì 5 marzo 2010

Il "nocciolo" della questione


Avevo quasi 8 anni. Fin da quando avevo imparato a camminare da sola avevo cominciato a frequentare assiduamente l’orto dei miei nonni durante tutta la primavera e l’estate. Uscivo dal cortile dei miei genitori, mi infilavo in quello dei miei nonni, arrivavo in fondo e aprivo il cancelletto che mi separava dal paese dei balocchi, il posto dove crescevano alberi da frutto e verdure ben ordinate. Camminavo un po’ tra l’insalata, i fagiolini e le melanzane studiandone lo sviluppo delle piantine in primavera e lo stato di maturazione in estate cercando qualcosa da poter assaggiare.
I pomodori erano i miei prediletti, osservavo attentamente ognuno di loro prima di scegliere quale cogliere e divorare sul momento, ancora caldo di sole e un filo impolverato.
La primavera e l’estate dell’86 mi insegnarono quanto gustosa fosse la verdura che coltivavamo in casa in confronto a quella del supermercato. Fui costretta ad impararlo perché quella primavera e quell’estate non mi fu permesso di mangiare nulla di quello che maturava nel nostro orto e io camminavo desolata osservando le fragole che sembravano chiamarmi e stramaledicendo quella “nuvola” che “forse ha portato le radiazioni fino a qui” e che faceva dire ai telegiornali “è opportuno, a scopo preventivo, evitare di consumare frutta e verdura di propria produzione per via del rischio che sia stata contaminata”.
Di nucleare non se ne parlava molto in casa, certo si sapeva che c’era la centrale di Trino e che l’acqua riscaldata che veniva immessa nel Po faceva si che i pesci morissero e che non si potesse più pescare in quella zona ma nulla di più.
Dal 26 aprile 1986, per più di un anno, a casa mia si discusse quasi ogni giorno di Chernobyl e di Trino e quando, nel novembre del 1987, il referendum sancì l’abbandono del nucleare come fonte di produzione di energia, si festeggiò a lungo. Sembrava che tutti si sentissero davvero più sicuri, come se il fatto di non avere centrali “in casa” rendesse contestualmente più lontane quelle francesi o svizzere.
Io non mi sentivo più tranquilla. Se Chernobyl mi aveva impedito di mangiare le mie albicocche e le mie pesche, cosa sarebbe successo se a guastarsi fosse stata una centrale più vicina a casa nostra?
Poi, come sempre accade agli uomini, l’inquietudine dovuta a un rischio non prevedibile, scomparve lentamente seppellita da altri interessi e altri problemi.
Dopo il diploma trovai lavoro a Trino e parlando con i miei colleghi scoprii che la centrale, nonostante fosse chiusa da anni, sembrava mietere ancora molte vittime tra chi abitava nella zona.
Ascoltando i loro racconti che parlavano di amici e famigliari che avevano sviluppato diverse forme di neoplasie cominciai a risentire quell’inquietudine che avevo provato da bambina.
Credo che la paura sia il sentimento più distruttivo che si possa provare e l’idea di convivere per tutta la propria esistenza con la paura sia una delle pene peggiori a cui si può condannare una persona.
La produzione di energia attraverso il nucleare comporta seri rischi intrinsechi nella natura stessa del ciclo produttivo, dall’arricchimento del materiale radioattivo al suo utilizzo fino allo smaltimento delle scorie.
Io non voglio vivere nella paura che qualcosa non vada per il verso giusto.
Io non voglio vivere pensando che qualcuno mi vuole sfilare delicatamente il cuscino da sotto la faccia sostituendolo con una bomba per poi augurarmi la buona notte.
Io sono sveglia e non mi addormenterò finchè ci sarà qualcuno con quella bomba vicino al mio letto.
Io vigilo e sono contenta di non essere l’unica insonne in questa notte.

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