martedì 2 marzo 2010

Multi-nazionale

Ok, lo confesso, lavoro per una multinazionale della chimica “figlia” di una multinazionale del petrolio. In pratica ricevo lo stipendio direttamente dalle mani adunche di Satana!
Mi piacerebbe poter raccontare di guadagnarmi da vivere in modo più romantico ma il destino cinico e baro mi ha voluta come perno di uno degli ingranaggi che nell'immaginario collettivo rappresenta l'antitesi del militante di sinistra.
Quella della multinazionale è una società strana. Mentre in una piccola o media impresa, se vieni assunto per una mansione specifica e qualificata, non hai concorrenza, in una multinazionale esiste un tuo doppione praticamente in ogni stato in cui l'azienda è presente e quindi, ogni tuo collega straniero è potenzialmente colui che potrebbe farti mandare a spasso.
Regola numero uno nelle multinazionali è capire, parlare e scrivere bene in inglese. Altrimenti come ti puoi rapportare con i colleghi o i clienti?
La prima volta che mi sono trovata a una riunione convocata a livello europeo credevo che ne sarei morta. L'idea di dover parlare una lingua di cui non avevo la piena padronanza, ne grammaticalmente parlando ne sotto l'aspetto della terminologia tecnica, con persone professionalmente più preparate, mi riempiva d'angoscia. Avevo il timore di non riuscire a spiegarmi, di essere giudicata e derisa, di giocarmi il mio futuro all'interno dell'azienda su quell'unica riunione.
La mattina della riunione, dopo aver dormito quasi nulla nella mia stanza d'albergo parigina, arrivai tesa come la corda di un violino, tirata a lustro per l'occasione, impettita e anche un po' rabbiosa, pronta a non darla vinta a nessuno che avesse provato a farmi passare per tonta.
Venni salutata da tutti i presenti, indipendentemente da quale fosse la loro nazionalità, con uno splendido “Ciao!”.
“Ciao?” mi chiesi un po' spiazzata... e dove lasciamo il “Good morning” che mi ero preparata? Dopo di me entrò un collega francese e la scena si ripetè con un “Bonne jour” e così via con i colleghi tedeschi e inglesi. Compresi che il senso era quello di non far sentire nessuno straniero. Salutarti nella tua lingua era un modo per sottrarti alla tua posizione difensiva d'incompreso e sentirti immediatamente parte di una squadra senza confini.
Non ho mai avuto difficoltà nel relazionarmi con persone delle più disparate nazionalità che vivono, legalmente o da clandestini, nel nostro paese. Forse per via della mia incontenibile curiosità ho sempre considerato il vissuto d'altri come una fonte inesauribile di conoscenza e di spunti di riflessione.
Di ritorno dal mio primo meeting tecnico mi resi conto di cosa dovessero essere le politiche di accoglienza. Io, come straniera conscia del fatto di esserlo, ero approdata nel mio “nuovo paese” stando sulla difensiva, piena di incertezze e di senso di inadeguatezza. Se fossi stata accolta con atteggiamenti spezzanti avrei sviluppato un atteggiamento astioso e la mia presenza non sarebbe stata produttiva. Accogliermi invece in modo sereno, senza caricarmi del peso delle aspettative e facendomi sentire una risorsa (anche se effettivamente, per lo scarso bagaglio tecnico che avevo allora, non lo ero affatto) mi ha resa collaborativa.
Mi accorgo ogni giorno che molto dei rapporti interpersonali è mediato dalla nostra predisposizione all'accoglienza, all'ascolto e alla collaborazione. Non sono mai riuscita a guardare una persona proveniente da un qualche stato dell'Africa in modo diverso da come guardo un qualsiasi Americano o Asiatico o Europeo, venisse anche da Alessandria (non quella d'Egitto).
Forse è semplicistica come soluzione ma credo che una buona politica dell'accoglienza debba partire dall'appianare ogni situazione che tenda a mettere sulla difensiva chi vorrebbe essere accolto perché un paese che “accoglie” un migrante rinchiudendolo in un “centro di identificazione ed espulsione” (che già dal nome non fa ben sperare), non predispone il migrante a essere “collaborativo”.

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