venerdì 12 marzo 2010

In sanità


Per me è seriamente problematico parlare di sanità per due motivi ben distinti. Il primo è che per mia enorme fortuna godo di una salute di ferro, il secondo è perché, per mia altrettanto grande sventura, i miei rapporti con la sanità sono stati mediati dalla malattia che ha ucciso mio padre.
Più di 5 anni fa i medici diagnosticarono a mio padre un tumore all'intestino. Venne operato nel giro di pochi giorni e si sottopose a cicli di radioterapia e chemioterapia per diversi mesi dopo l'intervento. Nel frattempo mia cognata, la moglie di mio fratello, rimase incinta e quando partorì il primo nipote di mio padre, lui stava abbastanza bene da potersi godere la gioia di diventare nonno. Come da protocollo si sottopose periodicamente a visite di controllo che comprendevano Tac, esami del sangue e radiografie. Andammo avanti un paio di anni alternando alle visite oncologiche quelle da uno psicoterapeuta fino al giorno in cui gli venne diagnosticata una recidiva al fegato. Si era sviluppata molto rapidamente tra una TAC di controllo e l'altra e prima di intervenire chirurgicamente fu necessario che si sottoponesse a un ulteriore ciclo chemioterapico nel tentativo di ridurre la massa tumorale. Quando finalmente fu possibile intervenire, fu ricoverato al Mauriziano di Torino e l'intervento fu trasmesso in diretta all'assemblea un congresso di chirurghi provenienti da tutta Europa. L'intervento riuscì ma una serie di complicazioni post-operatorie ritardarono di molto l'inizio dei cicli chemioterapici e, a distanza di un anno, subì un nuovo intervento a un polmone. Questa volta andò meglio e nel giro di poche settimane tornò a fare il nonno.
All'inizio dello scorso anno, gli esami di controllo evidenziarono una nuova formazione al fegato, questa volta non operabile.
Mio padre chiamava spesso i suoi medici chiedendo informazioni sulla sua salute e su cosa potesse fare per guadagnarsi un po' più di tempo perché a fare il nonno si divertiva un mondo e non aveva intenzione di mollare la partita.
All'inizio di luglio però ha dovuto cedere le armi e qualche giorno dopo, riordinando le sue cartelle cliniche, rimasi sconvolta dal numero di referti che aveva accumulato in quattro anni e mezzo. Tra radiografie, TAC, risonanze magnetiche, ecografie, esami del sangue e non so quanti altri accertamenti aveva riempito all'inverosimile un grande cassetto del mobile del salotto, tutto rigorosamente ordinato per data perché mio padre era uno preciso!
C'erano almeno una trentina delle grosse buste che si usano per contenere le lastre della diagnostica per immagini, un paio di raccoglitori pieni di esami del sangue e quattro grosse cartelle cliniche, una di Casale Monferrato, una di Candiolo e due di Torino. Non tangibili in quel cassetto c'erano stati i ricoveri (in quattro anni e mezzo almeno sette mesi li aveva passati in ospedale) e i farmaci (dai chemioterapici agli antibiotici per combattere le infezioni ricorrenti dovute all'immunodepressione, gli antiemetici, gli antipiretici e gli antidepressivi. E infine le visite, almeno un centinaio in tutto.
Credo che una stima ragionevole dei costi che avremmo sostenuto in quegli anni si aggiri intorno ai quindicimila-ventimila euro e difficilmente avremmo avuto modo di accollarceli senza chiedere un finanziamento ad un banca, con l'ovvio risultato che mio padre non avrebbe potuto godere delle migliori cure possibili e che probabilmente la sua battaglia non sarebbe stata così lunga.
Ecco quindi uno dei modi di coniugare la sanità pubblica: è qualcosa che ha permesso a un uomo qualunque, senza grandi possibilità economiche, di sopravvivere abbastanza a lungo perché suo nipote, di poco più di quattro anni, indichi oggi una foto e dica: "Nonno Gigi".

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